domenica 22 gennaio 2012

Out-take #4

È tutto così scontato, così ovvio. La Lei di turno questa sera si chiama Sue, ha ventidue anni. L’ho conosciuta al bar della palestra, uno dei luoghi più banali dove conoscere persone di sesso opposto al proprio. Sue è magra e soda come quasi tutte le ragazze della sua età, non molto alta a dire il vero, ma slanciata sì. I capelli neri e corti, gli occhi scuri, le labbra quasi viola. Approccio con una battuta ovvia sulla temperatura del caffè. Il barista capisce in un batter d’occhio che aria tira e si defila. Anche il tuo caffè è così caldo? Mi guarda come se avesse visto un cugino di terzo grado al matrimonio di sua sorella. Nella scena successiva siamo a cena. Sue sta studiando antropologia all’università. Un’intellettuale! Molto bene, penso io sfogliando il menù. Parliamo del più e del meno, in modo ovvio, come al solito. Gioco di rimessa, la incalzo con domande vaghe e quando capisco dove sta il punto faccio una domanda precisa. Nel suo caso il punto sta nel fatto che se la deve cavare da sola, ha perso entrambi i genitori cinque anni prima, in un incidente stradale. Ma è una ragazza solida, forte, lo si vede da subito. Lo capisco, è evidente. Ordiniamo due primi complicati – cucina fusion in piatti grandi come pneumatici – e una magnum di birra artigianale. La serata scorre via liscia e il cibo è incredibilmente buono. La scena successiva avviene davanti alla fermata della Metropolitana. Siamo su due linee diverse. Ci stiamo per salutare. Ci abbracciamo, siamo stati bene dopotutto, anche se ci conosciamo da sì e no quattro ore. La bacio di traverso, un po’ guancia un po’ labbra e dopo un istante di incertezza ci baciamo sul serio. La città intorno non si cura di noi, eppure mi sembra che tutto si cheti in quel momento. Sue, io. Silenzio, quasi. La gente ci passa accanto, non ci guarda neppure. Entriamo in un supermarket e compriamo un cartone di birre da sei. Sul treno troviamo due posti vicini. Ricominciamo a parlare. Le racconto di quando andavo a pescare con mio nonno. I racconti sui nonni fanno sempre effetto. Ci svegliavamo presto al mattino, verso le cinque. Fuori era notte e le montagne parevano giganti addormentati. Mio nonno scaldava un po’ di latte e me ne dava un tazza, insieme a del pane tostato e delle fette di formaggio puzzolente. Ci aspettava una lunga giornata, bisognava mangiare e nutrirsi a dovere per poter pescare tutto il giorno sotto il sole. Poi indossavamo lunghi stivali verde scuro e giacche con cento tasche. Sue mi ascoltava come se stesse parlando un profeta, un sacerdote di qualche nuova e mirabolante religione, muovendo le labbra alle mie parole. Quante volte avevo raccontato le giornate di pesca con mio nonno? Avevo perso il conto ormai. Ci aprimmo una birra, e la bevemmo passandocela nascosta dentro un sacchetto di carta marrone. È tutto così scontato, così ovvio.