domenica 11 novembre 2012

Occhi da cucciolo

Ieri, ricordando una quasi-promessa fatta, ho realizzato di aver lasciato cadere e impolverare l'enorme flusso di coscienza / racconto che mi ha accompagnato per più di due anni. 108, così si chiama questa follia, è tuttora qui, su questo computer in attesa di un lavoro di editing che si allontana ogni minuto che passa. Tic, tac. Ho troppe volte annunciato a me stesso un "qualcosa" che riguarda 108. Ma 108, ormai mi è chiaro, è un animale strano, sfuggente e misterioso. Sembra quasi avere una coscienza. Non posso mica costruire gabbie in eterno, bisogna che prenda aria, questa povera bestia, perché comunque di bestia si tratta. Tutto istinto, tutto improvvisazione, fame, freddo, libertà. Tutto così fuori fuoco e selvaggio. Ma con occhi da cucciolo, da bambino. Tra qualche giorno anche le poche orme di 108 rimaste verranno cancellate. Chissà mai che ritorni con occhi da uomo.

sabato 29 settembre 2012

Out-take #8

Ci sono intere categorie di persone con le quali è impossibile relazionarsi da un punto di vista sessuale. La signora davanti a me, ad esempio. È americana, sui sessanta, molto curata e giovanile nell’aspetto. Sul tavolino di fronte ha un Kindle Amazon nel quale un romanzo di Virginia Woolf aspetta di essere sfogliato elettronicamente. Ha due tette enormi, flaccide di sicuro e sproporzionate rispetto al corpo. È abbronzata e ben in carne. Avrà una serie di nipoti e di figli, penso io, forse un paio di mariti e altrettanti divorzi. È stata di sicuro una gran succhiacazzi, ne sono certo. Ma questo pensiero, questa immagine di lei in ginocchio che succhia con foga e maestria il cazzo del suo uomo è orripilante, insostenibile quasi quanto il pensiero della propria morte. Non si riesce a far scorrere indietro la lancetta dell’orologio, di venti o trent’anni. Lei ora è Nonna Mary o chissà come si chiama, e a casa cucina torte buonissime e colesteroliche e cura le rose del giardino meglio di tutte le vicine. Probabilmente frequenta un circolo semiesclusivo per signore benestanti e sono quasi certo che al mattino si sveglia molto presto per fare alcuni esercizi di yoga. Ora dorme, sogna gli antichi fasti o forse le sue rose. Ed è forse questa una gran verità della vita: non importa quanti cazzi hai succhiato durante la tua vita, a un certo punto invecchierai e sognerai le rose del tuo giardino.

domenica 22 gennaio 2012

Out-take #7

C’erano vari modi per fronteggiare quel tipo di emergenza, vari modi per uscire dal guscio e ritrovarsi di nuovo a lottare insieme agli altri. Stazionavo sul letto da giorni, circondato da bottiglie di birra da sessantesei e avanzi di cibo. Nella stanza c’era solo un letto, un tavolo da lavoro, un armadio. Le pareti erano spoglie. Dal soffitto pendeva una lampadina a risparmio energetico. L’Adsl era il mio unico legame con l’esterno. Quindi, certo, si trattava di un’emergenza. Mica puoi vivere a lungo così. Conosco persone che ci hanno provato. Alcune di loro non le ho più viste. Sembra una brutta battuta di un brutto film, ma è così, lo posso giurare. Bisognava prendere le corna del toro e fermarlo, il toro, prima di ritrovarsi con la pancia squarciata e le interiora a penzolare fino ai piedi. Le lenzuola puzzavano. La stanza puzzava. Il mio alito puzzava. Il pubblico sugli spalti era inebriato dalla lotta che sarebbe cominciata di lì a poco. Sentiva preventivamente l’odore del sangue e urlava. La questione in realtà era un’altra. Il punto non era il pubblico, non erano le grida, non era la puzza, non erano gli spalti assolati, le bibite ghiacciate vendute da adolescenti brufolosi in cerca di denaro da spendere in videogiochi e droghe sintetiche, non erano le famiglie perfette con i cappelli tutti uguali e il cane labrador seduto di fianco alla figlia piccola, non era la pubblicità della televisione via cavo che troneggiava di fianco al grande orologio digitale, non erano le migliaia di auto parcheggiate, i marciapiedi roventi, i chioschi dei paninari, non era l’aria adrenalica che si respirava, non era la mia paura, la terra battuta che si muoveva in superficie ad ogni alito di vento, non erano le nuvole che proiettevano ombre minacciose sulle teste delle persone. Il punto era il toro. Lui era il protagonista, la star, il carnefice e la vittima, il boia e il capro espiatorio. La questione era lui. Le sue corna affilate. Il mio sangue che sarebbe sgorgato nel giro di qualche minuto era del tutto marginale. Rimuginai questo aspetto dell’emergenza. Il mio sangue e la marginalità della cosa. Forse per questo mi alzai e andai in bagno a sciacquarmi la faccia. Forse per questo mi specchiai. Forse per questo mi lavai i denti. Forse per questo mi spogliai e mi infilai sotto la doccia. Forse per questo mi feci la barba. Forse per questo tirai fuori dei biscotti dalla credenza e li mangiai avidamente. Forse per questo mi vestii e uscii di casa.

Out-take #6

Io non sapevo niente di Milano, di via Lanzone, della Basilica di Sant’Ambrogio. Non lo sapevo mica che in quei palazzi ci vivono famiglie ricche, ricchissime. Nella torre ci abitava una contessa vecchissima, centodue anni dicevano, una specie di mostro senza denti. Mangiava solo minestre e beveva succhi di frutti vitaminizzati e ogni tanto la vedevamo camminare col trepiedi in via Cesare Correnti, in compagnia della badante moldava. Ma per noi era solo uno spettacolo nauseabondo, ci faceva venire i brividi e basta. Per quanto ci riguardava poteva anche avere quattro miliardi sul conto corrente e dodici appartamenti in centro, ricordare decine di storie sulla guerra, sui prigionieri feriti, sulla città liberata. Magari aveva perso il marito. Magari era sopravvisuta ai figli. Ma per noi in fin dei conti restava solo una cosa da voltastomaco. Io giravo in bici e ancora non ero capace di unire i quadranti del Tuttocittà, via Circo, via Morigi, via della Zecca Vecchia, piazza Cordusio, la Posta Centrale, via Dante, il Castello, via Canova, il Cimitero Monumentale, via Farini. Casa. La sera avevamo un appuntamento più o meno fisso al bar di Piazza Cantore. Arrivavamo uno per volta, ordinando Negroni sbagliati e Margarita. Poi fumavamo qualche sigaretta e ce ne andavamo in giro fino a notte fonda.

Out-take #5

Gli alberi facevano sflush, che pareva d’esser in mare aperto. Pure la sedia ondeggiava, se chiudevi gli occhi. Solo tirava un gran vento sull’erba medica mezza bruciacchiata, sui peschi carichi di frutti non ancora maturi, sui noci alti e diritti. La vallata, che si apriva generosamente agli occhi semichiusi, era nitida e perfettamente a fuoco. Il marrone scuro della terra arata, il verde opaco delle vigne, il giallo ocra del grano, quello appena più chiaro dei girasoli, ogni colore appariva perfetto, rotondo e appagante. Era bello tornare nella misura in cui era bello partire sapendo di poter tornare ancora. Una sorta di assioma sulla teoria degli opposti, il piacere che non è tale se non c’è dolore, una metafora sul viaggio condensata in una banalissima suggestione del cervello, una sinapsi lunga un millesimo di millisecondo. Sono felice perché so che domani parto ma poi ritorno. Le colline erano esattamente come le avevo lasciate l’anno prima. Solo qualche albero poco più avanti a me, proprio dove cominciava la discesa, mi sembrava leggermente cresciuto. La grande casa alle mie spalle incombeva con tutto il suo enorme peso di mattoni, finestre, mobili e ricordi. Ogni volta era come entrare nella cabina del teletrasporto sgranocchiando biscottini proustiani. Ogni volta era una scoperta. Di cassetti inesplorati, mensole nascoste, scatoline di metallo decorato mai aperte. Ogni volta erano collisioni in fase rem - come se le pareti della camera da letto creassero campi magnetici di stimolazione dell’attività onirica - io inconsci che proferivano verità assolute rapidamente eleborate e dimenticate dopo pochi secondi di veglia. Fantasmi, niente di più. Un lampadario in ferro battuto, una cassapanca di ciliegio, due rotoli di carta da parati. Un righello di legno, una Madonna dipinta a olio. La raccolta completa della Settimana Illustrata, cappellini di paglia, pacchi di cartoline scritte in tempo di guerra. Ogni cosa a suo posto, eppure ogni volta con un qualcosa di diverso. Fantasmi birichini che giocano a confondere e a mischiare le carte in tavola. Si vedeva fino alle montagne innevate, cento e più chilometri in linea d’aria. Il vento aveva spazzato via tutto, asciugato le nuvole. Sflush, chiusi gli occhi e tornai a farmi dondolare sul mio vascello.

Out-take #4

È tutto così scontato, così ovvio. La Lei di turno questa sera si chiama Sue, ha ventidue anni. L’ho conosciuta al bar della palestra, uno dei luoghi più banali dove conoscere persone di sesso opposto al proprio. Sue è magra e soda come quasi tutte le ragazze della sua età, non molto alta a dire il vero, ma slanciata sì. I capelli neri e corti, gli occhi scuri, le labbra quasi viola. Approccio con una battuta ovvia sulla temperatura del caffè. Il barista capisce in un batter d’occhio che aria tira e si defila. Anche il tuo caffè è così caldo? Mi guarda come se avesse visto un cugino di terzo grado al matrimonio di sua sorella. Nella scena successiva siamo a cena. Sue sta studiando antropologia all’università. Un’intellettuale! Molto bene, penso io sfogliando il menù. Parliamo del più e del meno, in modo ovvio, come al solito. Gioco di rimessa, la incalzo con domande vaghe e quando capisco dove sta il punto faccio una domanda precisa. Nel suo caso il punto sta nel fatto che se la deve cavare da sola, ha perso entrambi i genitori cinque anni prima, in un incidente stradale. Ma è una ragazza solida, forte, lo si vede da subito. Lo capisco, è evidente. Ordiniamo due primi complicati – cucina fusion in piatti grandi come pneumatici – e una magnum di birra artigianale. La serata scorre via liscia e il cibo è incredibilmente buono. La scena successiva avviene davanti alla fermata della Metropolitana. Siamo su due linee diverse. Ci stiamo per salutare. Ci abbracciamo, siamo stati bene dopotutto, anche se ci conosciamo da sì e no quattro ore. La bacio di traverso, un po’ guancia un po’ labbra e dopo un istante di incertezza ci baciamo sul serio. La città intorno non si cura di noi, eppure mi sembra che tutto si cheti in quel momento. Sue, io. Silenzio, quasi. La gente ci passa accanto, non ci guarda neppure. Entriamo in un supermarket e compriamo un cartone di birre da sei. Sul treno troviamo due posti vicini. Ricominciamo a parlare. Le racconto di quando andavo a pescare con mio nonno. I racconti sui nonni fanno sempre effetto. Ci svegliavamo presto al mattino, verso le cinque. Fuori era notte e le montagne parevano giganti addormentati. Mio nonno scaldava un po’ di latte e me ne dava un tazza, insieme a del pane tostato e delle fette di formaggio puzzolente. Ci aspettava una lunga giornata, bisognava mangiare e nutrirsi a dovere per poter pescare tutto il giorno sotto il sole. Poi indossavamo lunghi stivali verde scuro e giacche con cento tasche. Sue mi ascoltava come se stesse parlando un profeta, un sacerdote di qualche nuova e mirabolante religione, muovendo le labbra alle mie parole. Quante volte avevo raccontato le giornate di pesca con mio nonno? Avevo perso il conto ormai. Ci aprimmo una birra, e la bevemmo passandocela nascosta dentro un sacchetto di carta marrone. È tutto così scontato, così ovvio.

Out-take #3

Spiare la felicità altrui è diventato sport nazionale. Miliardi di terabyte, miliardi di sorrisi e foto in posa, ubriachi, alticci, brilli, sotto effetto di psicofarmaci e, infine, semplicemente felici, anche se solo per la durata dello scatto. Una frazione infinitesima di tempo, qualche millisecondo. Di fatto è un problema di contesto, ogni sorriso va contestualizzato e inserito in un sistema, in un macroinsieme di sorrisi che a sua volta è contenuto da un supermacroinsieme di facce e disposizioni d’animo. In un certo senso spiare la felicità o l’infelicità altrui è la base di molte cose. Pensavo a questo mare di idiozie mentre facevo ritorno a casa, di nuovo. Eccomi qua. Di nuovo a casa, di nuovo sospeso. Meglio, non sono proprio a casa, non ancora. Sono di nuovo sulla soglia, con la porta davanti a me, il campanello cromato sulla destra, il mio nome scritto in stampatello maiuscolo sopra quello di mia moglie, lo zerbino con scritto “bentornato a casa papà” sotto i miei piedi, una lampadina a risparmio energetico dentro una lanterna in stile vecchia fattoria che mi illumina i capelli bianchi. Se non sapessi come mi chiamo questa potrebbe essere la casa di chiunque. Ma il mio nome me lo ricordo bene, altrochè. Se non me lo ricordassi potrei spiare ciò che accade dentro questa casa e valutare in modo asettico e oggettivo quanta felicità o infelicità vi intravedo. Le finestre della sala lanciano bagliori catodici, a intermittenza. Mia moglie è quasi sicuramente sdraiata sul divano marrone, quello sul quale i nostri figli hanno pisciato, vomitato, si sono masturbati, hanno giocato alla Playstation e guardato le partite. Davanti a lei, sul tavolino di cristallo della nonna, c’è una bottiglia di vino rosso aperta e un bicchiere colmo. Sta guardando una serie tv, una di quelle col finale malinconico che ti insegna qualcosa lasciandoti l’amaro in bocca. Ne è passato di tempo. Quante volte ho avuto paura di trovarla in compagnia di uno dei suoi amanti. Me ne stavo lì impalato sulla soglia e cominciavo a fare rumore con le chiavi o a simulare attacchi improvvisi di tosse. Oppure mi mettevo a sistemare la spazzatura o a fare qualsiasi cosa che potesse dare il tempo a mia moglie di rivestirsi o semplicemente far uscire dal retro l’uomo di turno. Non avrei mai potuto sopportare la scena, anche se me l’ero immaginata migliaia di volte. Mia moglie che gli sussurra nell’orecchio prendimi da dietro qui, sul divano, perché vuole contemporaneamente salvare l’integrità del talamo, preservare le lenzuola dello stesso dagli umori sessuali che di lì a poco sarebbero sgorgati in quantità e aizzare ulteriormente quell’uomo timido prima che potesse avere dei ripensamenti. In fondo per un uomo l’idea di prendere da dietro la moglie di qualcun altro è senz’altro più eccitante che ritrovarsi faccia a faccia nel letto matrimoniale con le foto di battesimi e parenti in bella vista. Poi ingoiavo quelle immagini - grosse come meloni nei primi anni, più sopportabili man mano che i capelli si ingrigivano - ripromettendomi di non farle tornare mai più. Avvicinai la mano al campanello, poi cambiai idea. Tirai fuori le chiavi, facendole roteare per trovare quella giusta. Dalla sala i bagliori smisero all’improvviso e io entrai nella completa oscurità.

Out-take #2

Tutto mi passa accanto da molto, troppo tempo. Anna, ad esempio. Anna è magra e ha labbra di velluto. Pedala una Rossignoli degli anni Settanta con una grazia innaturale. Anna è di una bellezza non compromessa, selvatica. Sono giorni che mi siedo al bar dell’angolo, facendo finta di leggere il giornale. Il bar è di fronte al negozio dove lavora. Ecco la signora del quinto piano, entra con il tacco dieci e una scia dolciastra che sa di centro commerciale. Ecco l’uomo con la camicia a righe strette e le iniziali cucite sotto il capezzolo sinistro. Ecco la coppia di trentenni, lei che è l’uomo, atletica, scattante, sicura di sè, lui che si guarda in giro con sguardo smarrito e/o vuoto e/o inebetito e/o remissivo, gli manca solo la museruola. Entrano insieme, ma lui dopo cinque minuti è già fuori dal negozio a fumare tre sigarette contemporaneamente. Poi verso le undici e mezzo c’è sempre un momento di pausa, un momento in cui magicamente nessuno, mai, nessuno entra nel negozio di mobili etnici. Dovrebbero farci uno studio sulle ricorrenze degli orari delle attività commerciali. Alle undici e mezzo, dicevo, Anna mette il cartello “torno subito” e attraversa la strada. Oggi indossa un vestito azzurro e un paio di mezzi stivali marrone chiaro. Io alzo il giornale e mi metto a leggere i titoli della cronaca locale. Un ragazzo ferito in una rissa, durante una serata in un locale. Pensa te. È dura essere giovani oggi. Abbasso il giornale e vedo le spalle di Anna.

Out-take #1

C’è questo appartamento in cui ho soggiornato per una settimana. Non c’è un motivo sensato per cui mi viene in mente ora. Il più delle volte si fanno associazioni mentali del tutto casuali. È la casa degli amici dei miei che siamo andati a trovare. Siamo nel 1989, ho tredici anni. Sono magro e indosso una giacca troppo leggera. Siamo a Montreal, la città dove sono nato ma di cui non ho ricordi. Ora cerco di farne incetta, di ricordi, e osservo/registro/assoporo tutto ciò che posso. In questo ho una fame da adolescente. È Natale e sta nevicando. Fuori ci sono venti gradi sottozero, ma la casa è calda e confortevole. Ci si sta bene, altroché. L’amica dei miei è una bella donna sui cinquanta. Ha due figli maschi che hanno più o meno l’età di mio fratello, quindi sono più grandi di me. Noi guardiamo la tv in salotto, forse basket o forse un altro sport. L’amica dei miei ci raggiunge e ci dice che quando nevica il giorno di Natale l’anno che segue sarà fortunato. Tutti noi sappiamo che sta morendo di cancro, anche se mica sappiamo bene cosa vogliono dire le parole “cancro”, “fortuna” e “morte”. La ascoltiamo e annuisco sorridendo. Fuori continua a nevicare, pare non poter smettere. È tutto bianco in città. Ma dentro fa caldo, caldissimo. Si sta bene, proprio.